Chi ci pensa allo sport di base?
Siamo sempre tutti d’accordo nell’affermare la salvaguardia delle società sportive di base. Ma quanti sanno davvero cosa è e cosa fa una simile società sportiva? In pochi, purtroppo, perché si tratta di quel mondo “minore”, di cui i mass media non si interessa. Su mille titoli dedicati allo sport “maggiore”, quello dei campioni, nemmeno uno sull’attività di queste società. È normale, perché in una società dove è così potente la comunicazione, tanto invasiva, ciò che conta è la notizia, lo spettacolo, il tifo. Nulla a che vedere con quello sport di base che pure, in Italia, dal Dopoguerra, ha garantito la pratica sportiva di milioni di persone. L’Italia è ricca di campioni: donne e uomini che hanno segnato la storia di ogni sport, dalle Olimpiadi ai campionati. Ma il terreno di queste eccellenze che esplodono e volano molto in alto è fatto di gente che non fa dello sport una professione, ma un momento libero di svago, fra il tempo dedicato allo studio, al lavoro, alla famiglia. Questa base, ove si innesta il principio della vita sportiva è rappresentata dalle società “minori”. Non che abbiano pochi iscritti (si va dai 20 ai 500), ma perché vivono dell’essenziale, poggiando su persone volenterose, che offrono disponibilità, competenza e certo grande cuore.
I dirigenti di base si assumono grandi responsabilità; accogliendo i ragazzi, specie quelli privi di mezzi sufficienti per praticare sport con regolarità; affrontando questioni organizzative, fiscali, assicurative; riadattando i pulmini per le loro squadre; raccogliendo minisponsorizzazioni, giusto per limare i costi d’iscrizione. Se avviassimo una ricerca circa l’attenzione riservata a tali società sportive, il risultato sarebbe sconfortante. Con la conferma che lo sport di base rappresenta un mondo importante, grazie a cui tanti giovani fanno sport, ma che non ha mai l’onore dell’interesse di chi legifera in Italia.
I decreti finora letti sembrano incentivare le aggregazioni più strutturate, penalizzando lo sport di base e tendendo a professionalizzare: più psicologia, più competenze nei preparatori sportivi, più tecnici formati nelle scuole specializzate o nelle università. Ok, su tutto: ma chi aiuta quelle persone dal cuore grande e dalla fine sensibilità? Coloro che guardano ai ragazzi, scrutando le loro emozioni, e le loro fatiche? Chi è al corrente se una famiglia possa o meno permettersi scarpini o divise da gioco? Queste persone, di cui è ricco il Csi, continuano a rappresentare un riferimento sociale e culturale serio e affidabile. Perché non ci si accorge di loro e della basilare importanza sociale ed educativa?
Mi chiedo spesso se lo Stato debba pensare più allo sport di vertice o, prima di tutto, ai cittadini. Ho una risposta, anche se non molto apprezzata: per lo sport di vertice c’è il Coni, che fa bene il suo lavoro, che conta risultati in ogni disciplina e che merita di continuare a lavorare come e più di prima. Ma la domanda senza risposta è un’altra: chi pensa allo sport di base? Temo di avere anche qui la risposta: nessuno! Ma spero di sbagliarmi.